La mia dolce amica Coletta, donna estremamente sensibile e intelligente, sostiene che ogni persona abbia una sua ‘mappa del mondo’ con cui vede e interpreta le cose, e io ho sposato questa sua teoria trovandola una metafora perfetta per definire le diversità di visione della vita e di opinione di ciascuno di noi.
A volte, confrontandomi con qualcuno, ho proprio l’impressione che le nostre mappe del mondo siano totalmente diverse: una scritta in cirillico e una in caratteri latini, incomprensibili l’una per l’altra.
Qual è quella giusta? Chi lo sa. Per certi versi entrambe e nessuna delle due…
Qualche giorno fa ho condiviso in un post su Facebook e Instagram l’outing di Renzo Tondo sulla sua malattia, e la conseguente ammissione di soffrire io stessa di una malattia neuromuscolare e in tanti mi avete scritto in privato, raccontandomi storie di malattie vostre o dei vostri cari.
Non mi aspettavo tutti questi messaggi: mi avete stupita e commossa. Tranne in pochissimi casi, non ci conosciamo di persona, ma credo che ora, sapere che posso capire cosa prova chi deve convivere con una malattia dalla quale non può guarire, mi abbia resa ai vostri occhi in qualche modo degna di aprirmi il cuore.
Ci tengo però a dire una cosa che ho notato e mi infastidisce fin dall’inizio del mio viaggio con questa ‘compagna’ non molto simpatica, e che trovo ingiusta e scorretta: la diffusa, trasversale opinione che quella tra la persona e la malattia sia una ‘lotta’, una ‘guerra’, e che il malato debba comportarsi da ‘guerriero’. O – peggio ancora – la percezione che il ‘guerriero’ si meriti di ‘vincere la lotta’ più di chi invece si abbatte e demoralizza.
Ora. Anche io sono convinta che il potere della mente di influenzare il corpo sia notevole e che abbattersi e compiangersi non sia di aiuto, ma non è così semplice, e per tanti motivi.
Una guerra si combatte ad armi pari. E non può esserci una guerra contro un malattia neurodegenerativa, un cancro a uno stadio terminale, una grave cardiopatia… solo per citare alcune malattie gravi, e, checché si voglia insinuare, più forti di qualunque nostra volontà e del nostro corpo.
Corpo che, voglio ricordarlo, in una persona malata è già fiaccato e indebolito, oltre che dal male stesso, dalle terapie che è costretta a subire per fronteggiarlo e – a volte – anche da persone che lo circondano, dalle quali il malato si sente emarginato, quasi temuto perché è la prova vivente e visibile della fallacia della condizione umana, e – soprattutto – che il suo male potrebbe un giorno colpire anche loro. E alle persone, invece, piace illudersi che siano cose che capitano solo, appunto, agli ‘altri’.
E forse anche per esorcizzare questa paura che domani ci si possa ammalare allo stesso modo, rifugiarsi dietro al volere è potere, in qualche modo infonde coraggio e dona speranza: “se capita a me, io sarò un combattente, un guerriero, e lo sconfiggo, lo prendo ‘a calci nel c..o quel bast…”.
Eh, amici miei, magari…
Innanzitutto, siamo tutti diversi. C’è chi (una persona a caso: io) reagisce con incredulità perfino davanti a una TAC che mostra chiaramente quale sia l’origine del male e a cui servono giorni e giorni per convincersi che sì, è proprio così: è malato e non è un’appendicite.
C’è chi si deprime e piange e si dà già per morto, e chi invece reagisce come un ‘guerriero’, appunto (non io).
Eppure, e purtroppo l’ho visto accadere tante, troppe volte, anche i guerrieri muoiono a causa del loro nemico.
Quindi, questa irrealistica convinzione che per guarire ‘basti volerlo’, credo si basi sul rifiuto che nella vita ci siano eventi non dipendenti dalla propria forza di volontà, non prevedibili, né, spesso, contrastabili o evitabili.
Le malattie capitano. Improvvisamente, inaspettatamente. Anche a chi è giovane, ottimista, pieno di vita e conduce uno stile di vita sano.
Mi viene spesso rimproverato di dare troppa importanza alle parole. Ma le parole sono il modo in cui esprimiamo e riordiniamo i nostri pensieri, con cui interagiamo con il prossimo ed esprimono, per tornare alla frase della mia amata Coletta, la mappa con cui interpretiamo il mondo.
E quindi, ecco dove sta l’inganno principale: la retorica lessicale del malato-guerriero nasconde una cultura della sopravvalutazione della forza di spirito, della volontà di vivere, o di vivere da persona sana e in forze, come fattore determinante per la guarigione o viceversa nel soccombere alla malattia.
E dunque, chi muore, muore perché ha ‘perso la battaglia’, ‘si è arreso’, non ha lottato abbastanza perché forse non era poi così determinato a vivere.
Non trovate sia un insulto, una offesa, una mancanza di rispetto verso chi è morto? E verso le persone che lo hanno amato e hanno assistito al suo calvario, mentre affrontava dolore e sofferenze a volte indicibili?
Io non mi vergogno di ammettere di essere stata così devastata dalle incessanti nausee e vomito e dai crampi forti come doglie provocati dalla terapia da aver pensato di rinunciare e lasciare che la malattia avesse pure la meglio, perché se quella doveva essere la mia vita, non mi sembrava ne valesse la pena. Eppure amo la vita, e soprattutto amo i miei cari e non vorrei lasciarli.
Un medico meraviglioso e umano mi ha ridosato la terapia e mi ha fatta stare meglio. Adesso non ho più effetti collaterali, e sto anche piuttosto bene, ma è stata dura. Molto.
Io non sono una guerriera, l’ho detto.
Sono più una… Peace and love.
E in chi usa con tanta convinzione il linguaggio bellico per descrivere malati e malattie, io ravviso una sorta di moralismo giudicante, che contrappone il meritevole ‘guerriero’ forte, coraggioso e ‘con le palle’, che non si fa sottomettere da nessuno, ma anzi calpesta e sconfigge senza pietà i suoi nemici, al meno degno di stima malato debole, che si lascia sopraffare senza lottare strenuamente e con tutte le sue forze.
E io, invece, rivendico il diritto ad essere una persona normale, con le mie paure e debolezze, dolce, sensibile e anche fragile. E in certi momenti, rivendico anche il mio diritto a demoralizzarmi e piangermi un po’ addosso. Ciò non toglie che poi cerchi di distrarmi da questi pensieri cupi facendo una passeggiata, se ne ho le forze, o leggendo, ascoltando musica, comprandomi un vestito nuovo o uscendo a cena fuori per tornare di buon umore… ma questi momenti li ho avuti, li ho e li avrò, e non per questo devo essere criticata o giudicata una ‘perdente’.
Badate bene, non sto dicendo che i malati vadano compatiti e trattati come se stessero già con un piede nella fossa, anzi: l’incoraggiamento è necessario, affinché non si lascino abbattere e demotivare anzitempo.
Ma un malato non deve essere mai gravato di un altro, enorme peso: quello della responsabilità sul decorso di una malattia nei cui confronti, in realtà, contano la gravità, lo stadio di evoluzione, la tempestività e qualità delle cure mediche, e, per chi vuole crederci, il destino o qualche Dio.
Se si carica il malato anche di questa assurda responsabilità, l’unico risultato sarà quello di aggiungere altro stress a quello che già è costretto a sopportare, e nel caso in cui esso si trovi anche in una fase di depressione, si sentirà umiliato e in colpa, e converrete che psicologicamente è tutt’altro che positivo.
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