Per lavoro, entro in contatto con persone non carniche né friulane, che faticano a comprendere certe dinamiche che noi abbiamo così introiettate da risultarci normali, scontate.
Ma non lo sono. E soprattutto, non sono universali, né diffuse in tutte le aree geografiche.
Confrontandomi e dialogando sulle diversità di pensiero e abitudine, sulle diverse ‘mappe del mondo ‘, come direbbe una mia cara e saggia amica, ho pensato a chi, da straniero e studioso di antropologia ha fatto della Carnia e dei suoi abitanti l’argomento della sua tesi di dottorato.
Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso arrivò in Carnia Patrick Heady, un giovane antropologo proveniente da un’università di Londra, una della metropoli più importanti dell’Occidente, crogiuolo e crocevia di culture e popoli, che scelse proprio questo lembo dell’estremo nord est italico per il suo lavoro di ricerca, insediandosi in paesi pressoché sconosciuti al di fuori della nostra Regione, se non anche all’interno di essa.
Dopo due anni di studio, interviste, osservazioni condotti nelle valli Degano, Pesarina e Calda, decise di chiamate il suo libro Il popolo duro.
Heady, dopo un’iniziale, prevedibile, difficoltà di adattamento, riuscì ad abbattere la proverbiale diffidenza verso l’estraneo, il forest, dei carnici, e si ambientò così bene da imparare anche la lingua.
Conquistò la fiducia di molte persone, che pian piano si aprirono con lui e gli raccontarono vecchie e nuove storie di paese, pettegolezzi, tradizioni, folklore e abitudini che da secoli, a memoria loro, si ripetevano e tramandavano.
Credo che i carnici che oggi hanno dai 30 ai 50 anni siano diversi, almeno culturalmente, da quelli intervistati da Heady, che potrebbero essere i genitori o i nonni degli appartenenti a questa fascia di età alla quale io stessa appartengo.
Non sottovaluterei, da profana dell’antropologia, ma semplicemente da osservatrice abitante in queste zone, lo spartiacque anche culturale segnato dal terremoto del 1976.
Io sono nata dopo il terremoto, non ho quindi vissuto quei momenti tremendi né ho ricordi della ricostruzione, ma dai racconti di chi c’era, ho avuto la percezione che i contributi per la ricostruzione arrivati dallo Stato, forse per la prima volta nella memoria di queste zone, coincidenti con il boom economico degli anni ’80, durante i quali il benessere economico generale raggiunse probabilmente il suo apice, abbiano influito sui cambiamenti del tessuto sociale carnico (e sicuramente non solo, ma mi limito a pensare a quest’area) e anche a portare cambiamenti nella visione della vita, dei valori e delle priorità da porsi.
Pensiamo solo al mantra “fasin besoi”, facciamo da soli, ci arrangiamo, espressione del pervicace orgoglio, dell’operosità, abnegazione, dedizione al lavoro e alla dignità così forti da portare le persone a lavorare e risparmiare fino allo stremo senza chiedere nè, forse, accettare contributi e sussidi, vissuti come una specie di umiliazione.
Il terremoto scuote anche queste granitiche fondamenta e i contributi, gli aiuti, i soldi ‘regalati’ dallo Stato vengono accettati, anche se con iniziali resistenze e sospetto da parte di non pochi.
Se, nelle persone intervistate da Heady, e presumibilmente nate tra gli anni 20 e 50 del secolo scorso, erano ancora radicati alcuni valori e convinzioni che riconosco importantissimi nelle generazioni precedenti alla mia, oggi mi sembra che la società sia cambiata sotto molti aspetti.
Una di queste grandi differenze, a mio avviso, è il ruolo che la religione cattolica aveva in passato e ha oggi nella quotidianità delle persone.
Vorrei fosse chiaro che non c’è alcun giudizio nelle mie parole, solo una constatazione. Personalmente non sono credente, e la religione, nella vita mia e della mia famiglia non ha alcuna influenza, seppur debba riconoscere che alcuni valori o precetti cattolici sono così radicati nella cultura italiana, che comunque a volte emergono perfino in persone che si sentono completamente estranee alla Chiesa.
Le chiese sono, mi dicono, sempre più deserte, e il sacerdote non è più visto come una figura prestigiosa e importante all’interno della comunità.
I funerali laici, che un tempo erano una rarità che destava quasi scandalo, e che suscitavano persino il timore della dannazione eterna – ne ho chiaro il ricordo in più di un anziano quando li commentava -, ora sono quasi altrettanti dei funerali religiosi, chiaro segno che la religione non fa più parte della vita di molte persone, e il Paradiso e l’Inferno sono considerati niente di più che luoghi mitologici.
Ma se la crescente indifferenza verso la religione, credo, è ormai diffusa in tutto il mondo occidentale, un elemento che invece riscontro ancora nelle generazioni più vicine alla mia, sebbene – e per fortuna! – molto meno forte di un tempo, è la paura delle malelingue e dell’invidia altrui.
Un commento, più o meno superficiale o poco lusinghiero sugli altri, spesso senza nemmeno condividerlo davvero nel profondo ma solo per facile ironia o goliardia, nessuno può negare di averlo fatto.
Ben diverso, invece, è dedicare tempo e attenzioni a scrutare, indagare, giudicare la vita e la condotta altrui.
Fino ai primi anni del dopoguerra, la vita della maggior parte dei carnici era circoscritta entro i confini del paese, dove si lavorava, viveva, socializzava, spesso dalla nascita alla morte, e le donne non avevano occupazioni diverse dall’accudimento della famiglia, degli animali e dei campi.
In questa realtà così diversa da quella odierna, il ritmo della vita era scandito dalla luce del sole, dal susseguirsi delle stagioni, dai lavori agricoli, e si viveva seguendo tacite regole stabilite dalla società e dalla morale cattolica.
In una dimensione così legata alle leggi di natura e della Chiesa, passare il tempo libero indugiando nel pettegolezzo era considerata un’attività quasi scontata, forse addirittura positiva e necessaria, perché in fondo serviva anche da monitoraggio dell’andamento sociale e morale del paese.
Oggi tutto è diverso. I giovani studiano fino almeno ai 20 anni, poi, indistintamente tra uomini e donne, lavorano, si spostano con l’auto, escono dal paese per continuare a studiare, lavorare, cercare il loro posto nel mondo altrove.
Anche i matrimoni, un tempo vissuti, soprattutto dalle donne, come un obiettivo, oggi sono sempre più rari e frequentemente sostituiti dalla convivenza, e nemmeno avere figli è scontato.
Eppure, noto ancora la resistenza, da parte di persone tra i 40 e i 60 anni, nel ritenere che mettere al mondo dei figli o avere un partner siano importanti obiettivi da raggiungere, come se non riprodursi o vivere soli fosse in qualche misura dimostrazione di un fallimento, biologico o personale.
Il mondo è sovraffollato, siamo in troppi perchè le risorse che la Terra ha a disposizione siano sufficienti per tutti, eppure, questa idea del doversi riprodurre, è ancora radicata e forte.
E l’attenzione verso il giudizio altrui in molte persone è anch’essa ancora forte.
Conosco persone, perfettamente sane di mente, che lavorano regolarmente e conducono vite “normalissime”, che nei giorni festivi o nei fine settimana si alzano a una certa ora del mattino per sollevare le tapparelle delle finestre e poi tornare a letto a dormire ancora un po’, in modo da non far capire ai vicini di casa che dormono fino a tardi.
Pensare che una persona si alzi per sollevare le tapparelle e poi tornare a dormire sembra un comportamento assurdo, se non addirittura folle, eppure, è un’azione che dimostra quanto, ancora oggi, sia radicato il concetto che il poltron, il puce fadîs, il poltrone, lo scansafatiche, sia una persona che non merita stima, mentre un lavoradôr, mattiniero e che sgobba tutto il giorno, sia invece degno di stima e rispetto.
Credo di aver sentito ripetere non migliaia, ma milioni di volte, la frase “eh, ma al e un lavoradôr” a giustificazione di condotte, spesso non proprio edificanti, di alcune persone. Non aveva importanza se la persona in oggetto avesse dei comportamenti scorretti, bevesse troppo, fosse rissoso o altro, tutto questo passava in secondo piano perché in fondo era un grande lavoratore, come se questa sua caratteristica azzerasse ogni altro difetto.
Naturalmente, essere lavoradôrs è un concetto unisex e trasversale: spesso ho sentito donne affermare con estremo orgoglio, forse anche per reclamare un posto nel mondo del lavoro che un tempo era esclusiva maschile: “Nella mia vita, piuttosto ho trascurato i miei figli, ma il lavoro mai!” o anche: “Sono andata a lavorare anche con la febbre, oppure prendevo ferie per non andare in malattia”, come se questi comportamenti fossero dimostrazione di serietà, affidabilità e rigore morale.
Ho sentito più volte dire anche di donne, che facevano lavori di concetto e poi svolgevano i lavori di casa senza aiuti maschili, che erano tutto sommato delle puce fadîs, perchè stavano sedute in ufficio e poi si dedicavano alle pulizie di casa invece di fare l’orto.
Giudizi derivanti dal retaggio di una mentalità contadina arcaica che sono duri da estirpare, peggio delle gramigne che infestano, appunto, le coltivazioni.
Si doveva (deve?) lavorare, tanto, possibilmente con dispendio di fatica fisica, perché il lavoro intellettuale spesso non veniva e non viene tuttora ritenuto di pari dignità a quello che implica l’uso del corpo, e soprattutto, fa notare Heady, sacrificio. “Sacrifici“, più spesso declinato al plurale, sacrificis, è una delle parole più ricorrenti nei discorsi dei carnici di una certa età: ogni cosa, ottenuta con sacrificio, vale infinitamente di più, e soprattutto, non suscita invidia.
Un altro timore diffuso, nota Heady, è infatti quello dell’invidia. L’invidia che non è, come bene dice lui, solo un sentimento, ma può trasformarsi in forza malefica attraverso azioni stregate, il cosiddetto malocchio, oppure attraverso azioni molto più prosaicamente umane, come meschine maldicenze o ritorsioni di vario tipo.
Quindi bisogna mantenere un profilo basso, senza esibirsi, mettersi in mostra e, se si attraversa un periodo particolarmente felice o sereno, mai sbandierarlo ai quattro venti, per non rischiare azioni malevole da parte delle persone invidiose.
Miôr fa dûl che invidie, dicevano una volta alcuni anziani.
Meglio fare pena che invidia. Che cosa strana, il contrario di quello che comunemente si potrebbe pensare, no?
E invece no. L’invidia, questo potente, orrendo sentimento, è così temuto, radicato, introiettato nell’animo dei carnici, che permea ogni ambiente e discorso.
Una leggenda narra perfino che un essere magico offrì a un carnico qualunque cosa egli volesse, con l’unica condizione che il suo vicino di casa avrebbe avuto la stessa cosa, ma doppia.
L’uomo, dopo una lunga riflessione, scelse.
“Toglimi un occhio!”
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Alba Fabris
Antonella
Bella e approfondita analisi…
Oltre che cuoca spassionata e creativa
Sei un’attenta osservatrice. Complimenti!
Io ho letto il libro quasi venti anni fa e ho ritrovato intatte atmosfere , sentimenti , situazioni che anche a noi stessi a volte paiono scontate .
Mi ha meravigliata non poco la capacità di questo studioso inglese che ha saputo calarsi così bene e profondamente in mondo complesso e ancora non mutato troppo da consentire uno studio così, mio parere straordinario.
Mi diceva mia sorella che viveva in affitto da una anziana signora in val Pesarina e giocoforza ha dovuto imparare a parlare un bellissimo armonioso “carnico”.
Per tutti era semplicemente Patrik.
In conclusione Il popolo duro e’ uno straordinario
documento di analisi scientifica circoscritto alke nostre tre valli ma che vale benissimo per tutto il nostro territorio.
Naturalmente ho letto molto altro delle tue “storie” e mi piacerebbe venire a trovarti. Chissà che non arrivi fin la’!
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Alba
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Mandi
Mara
Interessante. Certo la società è cambiata e così i carnici. Su certe cose concordo ma permetti una domanda: siamo sicuri che questo “progresso ” sia proprio un bene.? Dirai sei già anziana e quindi essendo nata fra il 50 e il 60 sei ancora radicata a quella mentalità. No non penso, penso invece che questo popolo ha resistito x così tanti secoli e in questi luoghi proprio per questa caratteristica. Ci si può modificare ma non cambiare totalmente. La disgregazione della famiglia che si sta attuando non porterà a una società migliore e il preferire il lavoro o meglio la carriera ad un figlio, una parte di te, non credo dia alla società un mondo migliore. L’invidia c’è e ci sarà sempre fa parte dell’uomo, sta alla persona invidiata un uso intelligente di questa “forza”…..magari coinvolgendo…