Le vecchie cose mi hanno sempre affascinata, forse perché, come dicono i miei figli, io stessa sono “vecchia dentro”.
Mesi fa, mentre riordinavo una casa toccata in eredità a mio marito, ho trovato quelli che per me sono veri e propri tesori: mobili, suppellettili, libri, fotografie e un baule di cui mi sono subito innamorata, il tutto risalente all’inizio del secolo scorso.
Il baule era di Emilio, il nonno di mio marito, la cui storia è così affascinante che ve la voglio raccontare.
Il nonno Emilio nacque nel 1886 a San Gallo, in Svizzera, da padre italiano e madre svizzera e ancora in fasce si trasferì con la famiglia in Carnia, a Cavazzo Carnico. Quando aveva 8 anni i suoi genitori morirono entrambi, e da Cavazzo lui e la sorella Serafina dovettero tornare in Svizzera, in una fattoria dove vivevano gli unici parenti rimasti. Qui Emilio e la sorellina non si trovavano bene: gli zii li facevano lavorare dall’alba al tramonto e non li trattarono mai come figli.
Una notte, Emilio scrisse un biglietto di addio in cui informava gli zii che lui e Serafina sarebbero tornati in Italia. Con un piccolo fardello sulle spalle, i due ragazzi fuggirono dalla Svizzera a piedi.
Il viaggio però era lungo e insidioso e per due ragazzini ancora di più. Appena arrivati a Cavazzo, Serafina, dalla salute già cagionevole e provata dagli stenti, morì. Emilio chiese aiuto a dei cugini del padre che lo ospitarono in casa loro, e appena l’età lo permise, andò a lavorare in Germania, dove piano piano divenne capo nei cantieri edili.
Quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale, arrivò la lettera di chiamata alle armi: se Emilio non si fosse unito all’esercito italiano avrebbe perso terreni e proprietà in Italia. Così, quasi trentenne e ancora celibe, fece rientro in Italia.
Arrivato a Cavazzo, con una conoscenza incerta dell’italiano e appena discreta del friulano, Emilio fu subito costretto a ripartire. Per il fronte.
L’esercito italiano gli fornì un baule di legno di pino con dentro un mantello, un paio di scarponi, fasce di pezza per coprire piedi e gambe, un cappello, una camicia, un maglione e poco altro. Quello era il corredo col quale affrontare la guerra in montagna.
In trincea sul Pal Piccolo e Pal Grande, sopra Timau, Emilio combatteva contro quelli che sentiva più fratelli dei suoi alleati. Un giorno ci fu un’imboscata, ed Emilio venne catturato e portato in un campo di lavoro in Austria insieme ai suoi commilitoni. Si salvò dalla morte certa solo perché era madrelingua tedesco, e gli austriaci lo impiegarono come interprete.
Finita la guerra, Emilio tornò a Cavazzo, dove si sposò ed ebbe tre figli, l’ultimo dei quali, avuto in tarda età, era mio suocero.
Il nonno non parlava mai volentieri degli orrori che aveva vissuto e non avrebbe mai voluto vedere, e odiava le armi e tutto ciò che le riguardava, caccia compresa, nonostante poi non avesse mai proibito ai figli di diventare cacciatori.
Ma torniamo al baule… ogni volta che lo guardo non posso non pensare alle vicissitudini di cui è stato inerte testimone.
In queste ultime settimane, forse influenzati dai ricordi che il baule porta con sé, mio marito ed io siamo stati a camminare sul Monte Festa, dove tuttora ci sono gallerie, fortificazioni e i resti di un forte usato durante la prima guerra mondiale; a Timau a vedere l’Ossario e il Museo della Grande Guerra e infine in Austria, al Museo della Grande Guerra di Mauthen e in un cimitero bellico che si trova appena dopo il Passo di Monte Croce; qui riposano insieme le spoglie mortali di soldati italiani, ungheresi e austriaci, nemici in vita per una causa a cui furono costretti ad aderire e uniti per sempre nella morte, che molte volte li ha sorpresi appena ragazzi.
Sul Festa camminavamo guardando la strada e le gallerie scolpite nella roccia con la sola forza di braccia e picconi e le caserme edificate portando calce, mattoni e pietre sul dorso di muli o sulla propria schiena; a Timau e in Austria pensavamo ai rigori dell’inverno che stremavano quei poveri ragazzi, costretti a coprirsi con quei pochi indumenti inadeguati ad affrontare le temperature di alta quota e a ripararsi in anfratti scavati nel dorso della montagna o in giacigli di fortuna, senza nemmeno poter accendere un fuoco per non rivelare al nemico la propria posizione. Quanto dolore, quanti morti, quanta fatica, quanto terrore e orrore hanno vissuto quei poveri ragazzi?
Quanti sogni, speranze, illusioni di un futuro sereno e spensierato si sono infranti su quelle montagne, persi nel sangue, nel suono degli spari troppo vicini, nel fragore e bagliore accecante delle bombe, nell’odore di morte e disperazione che li accompagnava in ogni istante?
In nome di una guerra che ha lasciato, in fondo, tutti sconfitti.
Il nonno Emilio lo ripeteva sempre, anche quando è scoppiata l’altra guerra, quella in cui vide combattere anche il suo primogenito Serafino, mandato al fronte in Grecia e in Albania appena ventenne.
La guerra chiama guerra, la violenza porta violenza, l’odio porta odio. E nessuno esce davvero vincitore da una guerra: dove ci sono stati morti innocenti, i vincitori non esistono.
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